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I giganti perduti

Luglio 2018 – Il percorso non è facile: scosceso, altalenante, tra salite e discese, faticoso sicuramente, ma di quella stanchezza appagante che nasce dalla meraviglia e dalla scoperta prodotta da una foresta abitata da titani. Il bosco vetusto di Acatti e Afreni è un luogo incantato, fermo nel tempo, dove alberi giganti e secolari si innalzano a sorreggere un cielo infinito, come a sostenere il peso dell’immensità dell’universo che li sovrasta. Gli alberi che via via incontriamo sono lì da secoli, forse da 400, 500 o forse 600 anni e ci raccontano di un luogo fuori dal tempo, di un Aspromonte incredibilmente dimenticato nella sua funzione millenaria di giacimento di risorse naturali, luoghi ai margini dei mille sentieri che segnano la montagna su ogni distanza.

Entrare nella foresta vetusta di Acatti e Afreni è perdersi in una dimensione arcaica e sconosciuta, che suscita sorpresa e meraviglia. La maggior parte degli alberi presenti nel bosco sono Pini larici, Pinus nigra laricio, una sottospecie diffusa soprattutto in Sicilia e Calabria, ma presente in quantità tali solo in Aspromonte e in Sila: sono i titani d’Aspromonte e sono centinaia, percorrendo l’intero crinale e i costoni laterali. Alberi il cui fusto raggiunge anche i due metri di diametro “a petto d’uomo” ed i 30/35 metri di altezza. Probabilmente a molti di voi le parole Mazzulisà, Acatti, Afreni non diranno niente, come non dicevano niente neanche a me, fino a quando non fui trascinata in quella breve escursione nel cuore del Parco Nazionale dell’Aspromonte. Ricordo che quell’escursione non aveva una meta precisa, chi ci accompagnava ci disse che l’importante nel percorso erano gli incontri di cui era disseminato: doveva essere come una visita a dei vecchi amici. Oggi, più che nel 2018, ripercorrendo con i ricordi gli incontri di quella giornata, mi accorgo che chi ci accompagnava quel giorno aveva proprio ragione.

Non so se sono riuscita a descrivere il fascino di Acatti e Afreni, parlandone come ne avrei parlato il giorno che li ho scoperti, nell’estate del 2018. Di certo non posso dire, purtroppo, che questo racconto sia attuale, in quanto, di tutto ciò che ho descritto, non resta niente. O meglio, restano tronchi inceneriti, desertificazione, cenere su cenere lungo un vastissimo raggio di territorio che il fuoco ha percorso per settimane, inarrestabile. La Calabria, come il resto del Sud Italia, è tristemente nota per gli incendi che caratterizzano ogni estate, una costante che lega la tintarella in prossimità della battigia al via vai dei canadair che fanno la spola mare-monti per spegnere i focolai che ogni giorno bruciano la Calabria. E’ una sorta di nuova attrattiva turistica, offerta da piromani mossi da interessi diversi solo ipotizzabili: attività di recupero boschivo e riforestazione, a vantaggio di aziende forestali in odore di mafia, da impegnare in operazioni di bonifica…? Un tempo gli incendi giustificavano assunzioni regionali nella forestale, forse oggi poco attuale come motivazione, ma che, come spesso capita alle peggiori azioni umane, è ancora un modello da emulare per altri progetti che impegnano la spesa pubblica. Si potrebbe pensare anche ai pastori, che rinnovano il pascolo attraverso il fuoco: l’ipotesi meno probabile, anche se la più inflazionata; ché, per non saper né leggere né scrivere il precedente presidente del Parco aveva voluto scoraggiare coinvolgendo i pastori dell’Aspromontecon incentivi volti al controllo e al monitoraggio del territorio.

Però, il fuoco del 2021 è stata una catastrofe senza precedenti per l’Aspromonte, perché ha interessato soprattutto la parte più affascinante del Parco e la zona a protezione integrale; quella, per intenderci, dove anche la presenza dell’uomo deve essere autorizzata, dove è vietata l’attività di pascolo e anche una passeggiata in un sentiero naturale è sottoposta ad un tracciamento preventivo. È in questa zona del parco che ricadeva la foresta vetusta di Acatti e Afreni, che oggi non esiste più. La perdita di un patrimonio ambientale, botanico e testimoniale così importante è un disastro culturale, prima ancora che ambientale. Un patrimonio che ha visto susseguirsi generazioni e generazioni, e che, chi l’ha conosciuto e l’ha amato, sperava potesse vederne altrettante.

Perché era un tempio sacro dell’Aspromonte, una grande cattedrale che da oltre 700 anni celebrava la grandiosità della natura. Il suo rogo dovrebbe essere per tutti noi una perdita lacerante: come quando restammo tutti davanti ad uno schermo a contemplare le fiamme che divoravano Notre Dame nell’Aprile del 2019, così dovremmo guardare ad un simile dramma. E invece ciò non è stato, perché di Acatti e Afreni resta si sa poco o nulla e la tragedia l’hanno vissuta come tale in pochi. Perché la memoria non svanisca, perché non accada mai più.

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COLLABORAZIONE / CMNT – di Giulia Malaspina

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